La mia campagna d’Africa
- #
- 8 mag 2018
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 13 mag 2018
Correva l’anno 1968.
Si chiamava El Hagh Abubaker Al Naali.
Non si scrive proprio così il nome, ma pressapoco. Si pronunciava così.
Quando avevo 20 anni sapevo scrivere qualche parola in arabo.
Bubacher, come lo chiamavano gli Italiani, era il Libico che importava il cemento dalla Grecia e lo vendeva alla imprese edili che costruivano la nuova città di El Beida (La Bianca), in Cirenaica, oggi ridenominata Beida Littoria.
Era un brillante trentenne che parlava italiano, vestiva con giacca e cravatta, pensava all’occidentale, Beduino, bianco del deserto.
Eravamo diventati amici.

Mi spiegava che El Hagh significa “santo”, cioè che era andato alla Mecca.
Mi diceva:” Svrinu, (nonostante le 28 lettere, l’alfabeto arabo ha solo tre vocali, appunto a,i,u, le due “e” del mio nome non venivano pronunciate e la “o” veniva pronunciata “u”) attento i Libici, ti fanno il sorriso davanti, ma hanno il pugnale dietro la tua schiena”.
Di lui mi fidavo al punto di accettare, con il mio collega Antonello, (romanaccio bassotto e tarchiato, buona forchetta, che si vantava di avere avuto un flirt con Patty Pravo al Piper) un invito a cena presso i suoi parenti, in tempo di Ramadan.
Le tende della sua famiglia erano nel deserto, vicino alla casa colonica.
Le auto dei parenti parcheggiate nello sterrato antistante erano tutte Mercedes.
La casa colonica, ancora ben conservata, era stata costruita dagli Italiani in stile littorio. Sulla facciata ingiallita dal tempo c’era ancora la scritta nera cubitale
- ente per la colonizzazione della Cirenaica - vinceremo - viva il Duce - .
Dentro c’erano le pecore, era la loro stalla.
La famiglia Beduina di Bubacher viveva sotto le tende.
Entrammo.
Strette di mano all’italiana.
Evidentemente Bubacher aveva catechizzato i suoi.
Infatti il saluto beduino sarebbe stato imbarazzante.
Si davano la mano e se la portavano al bacio della bocca contemporaneamente iniziando una tiri tera infinita di “come sta tuo padre, come sta tua madre, come sta tuo fratello, come sta…e non la finivano più perché, se avevano tempo, arrivavano alla quarta parentela di affini e collaterali, anche quando si incontravano in strada.

Appena entrati sotto la tenda grande, le donne velate, squittendo, se ne erano andate, meglio dire fuggite, sotto la loro tenda a preparare i cibi.
Ci levammo le scarpe, eravamo tutti a piedi nudi. Puzza!
Era il crepuscolo.
Quando il muezzin saliva sul minareto e incominciava a cantare - Allah è grande e Maometto è il suo profeta – gli Arabi si abbandonavano ad ogni licenza perché, di notte, Allah non vede.
La verità era che dall’alba al tramonto non toccavano cibo e, anche in città, a quell’ora, la gente prendeva d’assalto i bar e i negozi e si avventava su tutto ciò che trovava da mangiare.

Ci sedemmo per terra sul tappeto insieme con due parenti di Bubacher.
Iniziò la cerimonia del té.
C’era la teiera su un fornello elettrico in mezzo al tappeto.
Uno dei cognati beduini, vestiti nel costume tradizionale, sporco e puzzolente, rimestò la bevanda, la versò in un bicchiere di vetro, l’assaggiò con una specie di gargarismo, non era pronta, la ributtò nella teiera.
Rifece l’operazione un’altra volta riversandovi un po’ di bava rimasta sul bicchiere.
Si torse sul busto, prese un rametto di menta che teneva tra l’alluce e l’altro dito del piede destro, alzò il coperchio e mise il rametto dentro la teiera.
Pensai che, per fortuna, il te bolliva... Avrebbe insomma sterilizzato quanto serviva fare!
Dopo un altro assaggio, la bevanda venne giudicata idonea al consumo.
La versò nei bicchieri, come fosse pipì, partendo da distanza ravvicinata, salendo con una parabola verticale per fare spumeggiare la bevanda e ridiscendendo.
Ripeté l’operazione per tutti i bicchieri.
A me toccò quello con la bava del precedente assaggio.
Questo era l’aperitivo. I cibi che seguirono erano squisiti.
Le casseruole erano messe una dopo l’altra in centro al tappeto e tutti prendevano dalla casseruola piccole porzioni facendo cucchiaio con le mani.
Cuscus con pezzi di pollo e carne di montone; magalept, pezzi di intestino di pecora ripieni di carne e verdure; sciorba, zuppa di pomodoro piccante e quant’altro.
Mi sembra di ricordare anche il sapore, l’aroma, il profumo, l’odore, la puzza di tutto, ma, in particolare, mi ricordo quei peperoncini gialli che loro mangiavano copiosi con disinvoltura e che, non mangiati, ma portati davanti alla bocca, a una spanna
di distanza, uno di loro mi fece bruciare la lingua fino al giorno dopo.
Era il loro disinfettante.
Quello nostro era invece una bottiglia di whisky divisa in due non appena ritornati al’Hotel Cirene dove servivano anche uno squisito caffè alla turca con arachidi tostate.
E fummo salvi, come ci disse il giorno dopo suor Giorgina.
Era una monaca giovane, rubiconda, simpatica.
Diceva spesso un intercalare:” oh porca M….” , ma la sua santità su questa terra prescindeva dall’epiteto.

Curava tisici e sifilitici all’ospedale di Messa, la cittadina intitolata al generale, dove, in una altra circostanza, ebbi poi l’avventura di ritornare con Angelo Zanchi.
Non ricordo bene perché avevamo così fretta.
C’erano degli operai friulani che dovevano prendere l’aereo a Benghazi per ritornare in Italia e si trattava di recapitare i loro passaporti che erano rimasti al campo di El Behida.
Mi fu affidato come autista ( io ero già stato in carcere mezza giornata per guida senza patente U Allah, carabusch ! ) un capocantiere bergamasco, Angelo Zanchi, appunto, che seppi poi maniaco della velocità e che aveva corso, a suo dire, anche sul circuito di Monza.
Era il crepuscolo.
Contro luce, le prime brume gialle del deserto che preannunciavano il freddo della notte condensavano. Non si vedeva bene la strada.
La macchina sobbalzava calpestando le grosse tartarughe che attraversavano l’asfalto bollente.
Scansammo fortunosamente un dromedario che si era messo di traverso su mezza carreggiata.
Quando finalmente venne buio, mi sembrò una benedizione perché le nebbie scomparvero e i fari illuminavano agevolmente il percorso.
Non c’erano veicoli in senso contrario a quell’ora e il Zanchi volle dimostrarmi la sua professionalità nella guida.
Un po’ scherzando per non dargli adito a pensare che avessi la paura che invece avevo veramente, un po’ intimandogli di rallentare “veramente”, non ottenni risultato alcuno e la grossa Peugeout, 505 mi pare che fosse, correva contro il Ghibli che aveva cominciato a soffiare solleticandola a diritta e a manca.
Al passo di Tokkra, detto la tana di Rommel, dove, passato un profondo wadi, la montagna incomincia a digradare verso la pianura, i fari dell’auto pescarono nel buio.
Per qualche secondo mi parve di volare, poi un botto e mi trovai incastrato nel sedile.
Dal cofano del motore si alzò una spira di vapore.
I fari erano rimasti accesi, ma non si vedeva nulla.
Forzai la portiera per uscire, ma non si apriva.
Il Zanchi imprecava in bergamasco e tentava di riavviare il motore maneggiando la chiave di accensione.
“Per andare dove ?” chiesi. Era buio pesto. Non c’era neanche la luna.
Il Zanchi se la prendeva con la Madonna, suo figlio e con tutti i santi del paradiso, ma non capivo che colpa avessero loro e che tipo di confidenza il Zanchi si poteva permettere in quella compagnia.
Con uno spintone lo buttai fuori dall’auto aprendo la sua portiera.
Era grande e grosso e sembrava un bufalo sbuffante più per i calli che gli dolevano che per quelle poche escoriazioni che si era fatto.
Dal canto mio solo una ferita alla caviglia.
Annaspando nella sabbia tra le pietre risalimmo la china fino a raggiungere la sede stradale che avevamo lasciato a monte.
Eravamo partiti con maglietta e calzoncini, con una temperatura balneare.
Ora però faceva un bel freddo e si balbettava.
Non restava che camminare velocemente per raggiungere la cittadina di Messa.
Il Zanchi malediceva i calli, ma camminava spinto dalla pelle d’oca.
Arrivati dopo parecchi faticosi chilometri alle prime case, ci venne incontro un poliziotto.
Era di guardia con un suo compare al posto pubblico di polizia.
Vestiva un cappotto militare lasciato dalla guerra e parlava italiano, anzi scriveva pure qualche parola. E fu un dramma.
Si mise davanti al secchio di ferro con dentro la brace, attivò un bel fuoco per farci asciugare e poi ci permise di dormire sulle sedie all’interno della casupola.
Ma dovemmo pagare un pegno.
Il caporale, ci fece notare il suo grado, diceva parole in italiano, le scriveva molto lentamente e pretendeva che le correggessimo.
Avevamo un sonno terribile. Alla fine capì e ci lasciò dormire sulle sedie.
La mattina seguente, alle cinque, il canto di un gallo ci svegliò.
Eravamo pieni di pulci. Raggiungemmo la missione.
Le suore non c’erano e, per ripararci dalla brina che condensava ribagnandoci, ci rifugiammo nel pollaio dove le galline condivisero con noi il tetto e le uova.
Erano circa le otto. quando le suore arrivarono insieme con il vescovo di Benghazi con cui avevano celebrato una festività in una località vicina.
Ci ripulimmo, ci lavammo e facemmo colazione con loro, mentre il vescovo, un frate cappuccino piccolo e con la barba bianca, suonava il pianoforte.
Poi uscimmo sulla strada. Passò un camion proveniente dalla cava di ghiaia e ci riportò fino al campo.
Al campo c’era solo il cuoco. Gli operai erano tutti nei vari cantieri.
Andammo a dormire.
L’indomani mattina un dromedario portò i suoi quintali davanti alla finestra della mia cameretta e sbatté sul vetro il suo musone da idiota con la lingua rossa come un peperone ciondolante fuori dalla bocca.
Mi svegliai e uscii nel cortile.
Io non capivo perché tutti mi abbracciavano con grosse pacche sulle spalle.
Lo capii quando andai sul luogo dell’incidente o, come avrebbe potuto essere, del delitto.
La macchina aveva divelto due paracarri di cemento tranciando quattro grossi tondini di acciaio per ciascheduno ed era volata giù nella scarpata con un salto di venti metri, fermandosi su una grossa roccia piatta, trattenuta questa e l’auto da un arbusto sempreverde, rarissimo da quelle parti.
La roccia sembrava fatta apposta su misura per quel povero rottame.
Al di sotto, la scarpata continuava con la stessa ripida inclinazione per altri trenta metri prima di finire a ridosso del frantoio della cava di pietrisco.
Ci vollero un camion e un enorme bulldozer per trascinare su la macchina.
Poi gli operai infissero nella banchina stradale, tra i due paracarri divelti, una grossa croce fatta da due tronchi di pino.
Non c’era nessun Cristo su quella croce, ma mi parve di sentire la sua presenza in quell’ambiente.
Per certo doveva essere là, anche se forse non gli andava di incontrare il Zanchi. E giustamente, dato che solo il giorno prima quest'ultimo gliene aveva dette troppe: a Lui e ai Suoi che stanno in cielo...
Un anno dopo, quando con l’avvento di Gheddafi, vi passai per l’ultima volta in fuga verso casa, la croce era ancora là.
Per un po’ di tempo, dopo di allora, la vita mi sembrò un regalo.

Comments