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Europe & Deutschland, ein schicksal?

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  • 22 apr 2018
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 28 apr 2018


Europa & Germania, un destino?

Il 4 marzo si è svolto un quasi referendum fra i circa 463 mila iscritti del Partito socialdemocratico tedesco attorno al quesito se accettare o no la proposta della Grande Coalizione di governo, cioè, in sostanza, se proseguire la politica della cancelliera Merkel o no!

Ah, sì, il 4 di marzo si sono anche svolte le elezioni politiche italiane, è vero... ...ma quella è robetta!


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Stemma del Sacro Romano Impero, noto anche come Primo Reich.

Federico Barbarossa aveva un cugino: Enrico il Leone, gran duca di Baviera e Sassonia, che si rifiutò di aiutare coi suoi cavalieri l’imperatore nella sua discesa in Italia. Questa defezione costò al Barbarossa la sconfitta di Legnano, per cui se ne dovette tornare in Germania tutto incazzato, con le pive nel sacco, e con la voglia di vendetta che ad ogni passo aumentava contro il cugino disertore. A Enrico il Leone, per questa defezione, viene oggi imputato il fatto del ritardo tedesco nella formazione dello stato nazionale. Esattamente come per l’Italia, dove col suo Risorgimento arrivò per ultima in Europa, proprio perché gli stati regionali non furono accentrati per tempo, come voleva il Barbarossa, e come allora si andavano delineando anche nel resto dell’Europa.


Per la Germania però cominciò il martirio fatale dell’accerchiamento distruttivo.


Accadde con Federico II detto il Grande quando la Germania, cioè la Prussia, diventata una grande potenza fu accerchiata per la prima volta, e se la cavò trasformandosi da stato quasi moderno, in un’unica grande caserma. Poi con Bismark la stessa cosa! La Germania diventa una grande potenza così forte da porsi come obbiettivo il potere mondiale, accerchiata al centro d’Europa, ma assediata da concorrenti spietati che alla fine la travolgono dopo 4 anni di lotta feroce. Dopo la prima guerra mondiale il “Piano Morghentau” prevedeva di fare della Germania un paese agricolo con istituzioni quasi medievali e con divieti di avere aziende che andassero oltre l’artigianato di servizio. Non si arriva a tanto, ma il trattato di pace di Versailles è punitivo e durissimo. Hitler conduce una rivincita orribile e sanguinosa, e manca l’obbiettivo solo per poco. Così ancora dopo la seconda guerra mondiale ritorna il “Piano Morghentau”, sponsorizzato soprattutto dalla Francia ancora traumatizzata dall’invasione. Ma, data la grande potenzialità dello sconfitto, anche se diviso a metà, la Germana Ovest è arruolata nella guerra fredda al fianco degli Stati Uniti; e quando, dopo la caduta dell’URSS si riunifica, ecco che nel giro di 25 anni ritorna la fatale maledizione nibelungica, cioè si vede oggetto di un nuovo accerchiamento.


Infatti oggi la Germania è tornata ad essere una grande potenza isolata al centro dell’Europa.


Ingombrante e minacciosa perché capace di condizionare ogni politica e ogni progetto mondiale.

Quest’ultimo fatale riproporsi della storia è davvero strano!

È un paradosso del destino: l’integrazione europea (che mirava proprio a imprigionare il gigante tedesco) ha SPINTO la Germania verso una nuova egemonia (per la quarta volta).

”L’Economist” il 3 giugno 1999 definiva la Germania “Il grande malato” che però non solo è guarito, ma oggi è il primo partner commerciale di 16 stati europei su 25 (Svizzera compresa) è per altri 6 è il secondo. Berlino può contare sul circondario di 65 milioni dei Paesi Vesegrad (1), cui vanno aggiunti Slovenia, Croazia e Romania, dove ha delocalizzato la componentistica di auto, le materie plastiche, elettronica e altri settori industriali, e dove nel 1990 spuntava salari dieci volte più bassi di quelli tedeschi e oggi ancora più di tre volte inferiori. Gran parte dell’enorme avanzo commerciale è stato investito nelle infrastrutture per cui si è costituita una macchina industriale il cui capitale e profitto appartiene soprattutto ai tedeschi. Quelli del Visegrad hanno ottenuto un rinnovo della base industriale, un innalzamento del livello tecnologico, un aumento decisivo dei posti di lavoro, ma subiscono questa che è un’economia subordinata: cosa che porta a un disagio e a reazioni politiche negative ormai ben manifeste. Le industrie polacche, rumene, bulgare, slovacche, ceche, ungheresi dipendono da Berlino.


Di fatto sembra che sia tornato il Sacro Romano Impero di Federico Barbarossa in versione economica.


Oggi gli scontenti hanno trovato un leader, che si chiama Trump, presidente per caso.

I due schieramenti si fanno netti, è il capitalismo che si scinde e segue due strade differenti. Da una parte la Merkel paladina del libero scambio, dei “conti a posto”, del neoliberismo guidato dalle tradizionali élite del capitalismo colto e statalista, come vuole la tradizione francese, non a caso arruolata in stretta società. Dall’altra il gruppo degli autoritari, pieni di disprezzo per i tradizionali modi di far politica, spesso dall’eloquio rozzo, sovranisti e conservatori, cioè veri populisti rinati all’improvviso.

Le frizioni con gli USA però arrivano da lontano. La prima seria questione avviene quando nel 2003 la Germania rifiuta di mandare truppe in Iraq, la seconda, dieci anni dopo, quando si scopre che gli americani controllavano il telefono della Merkel.

In seguito i motivi di attrito con Trump si sono moltiplicati. Le sanzioni contro la Russia colpiscono molto gli intessi austriaci e tedeschi, la denuncia degli accordi sul clima di Parigi colpisce moltissimo la Germania che si apprestava a produrre - e vendere! - tecnologia verde. Mentre le eccedenze commerciali tedesche passano dal 28 miliardi di dollari nel 2009 a 75 nel 2015, Washington parla di Guerra commerciale, e “L’Economist” di surplus che danneggia l’economia mondiale” (8 luglio 2017). Ma in Usa ci sono circa 700 mila operai che lavorano nelle ditte tedesche e nel suo indotto, per cui la partita per Trump non è così facile, anche se non è solo su quella strada.

In questo scenario la Polonia è l’alleato primario per Trump, mentre per Berlino fonte crescente di guai perché si erge a capofila dell’unione Visegrad dove, dopo il 2015 in Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca, Ungheria prevalgono definitivamente governi autoritari spaventati dal fatto che l’Europa imponga loro di accettare immigrati mussulmani, ma soprattutto desiderosi di rifiutare la politica europea in quanto politica tedesca travestita.

La Polonia si trova ad essere pesantemente richiamata dall’Unione perché al suo interno è messo in dubbio lo stato di diritto. Poi col trattato di Parigi sul clima, ingoiato malamente a Varsavia, in quanto gli interessi energetici polacchi, basati sul carbone, ne vengono a soffrire! E poi il metanodotto con la Russia - gestito da Berlino e fatto passare al largo nel mare - fa perdere lauti diritti di passaggio! E ancora quando Francia e Germania rilanciano l’idea dell’Europa a due velocità perché allontanano di anni il riequilibrio dei salari nell’Europa centrale.

La Polonia ha quindi proposto sia di trasformare l’Europa in una semplice zona di libero scambio sia di rinunciare alla moneta comune. (ricordate che solo la Slovacchia nel gruppo Visegrad, ha aderito all’Euro) orientando il gruppo ad un accordo politico e commerciale in modo preferenziale verso l’Inghilterra. Cioè ha proposto un ritorno indietro di almeno 30 anni. Il disegno polacco dopo il voto sulla Brexit è andato in frantumi. Ma il disagio resta!

C’è poi una dimensione ideologica che i paesi capitalisti autoritari agitano ostinatamente. Essi accusano Bruxelles di tessere un’ingegneria sociale laica e di sinistra, cosmopolita e pluriculturale, mentre al contrario “il vero Occidente” siamo noi, noi i veri portatori di quei valori che l’Europa sta tradendo. Frontiere, spazio nazionale, sovranità, spazio fisico o di pensiero, questo mondo tiepido social –liberalista deve finire perché noi siamo la vera l’Europa. L’Uscita dal nucleare, il salario minimo o di cittadinanza, la promozione dei diritti umani, l’accoglienza, il matrimonio per tutti son cose che per alcuni del Visegrad non contano nulla. Negletta e trascurata la pace, in giro per il mondo, cioè la grande questione che sta sempre sul piatto, distrattamente piange.

 
 
 

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