Cina (quinta parte)
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- 7 ago 2018
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Politica estera e nuova via della Seta
Sin dalla elezione Xi Jinping impegna grandi energie nella politica internazionale, con il tentativo di far diventare la Cina punto di riferimento dei Paesi in via di sviluppo.
Pechino ha numerosi contenziosi aperti con il Giappone, l’India e i Paesi dell’Asia meridionale – tutti Stati accomunati dal timore della sua crescita eccessiva. Negli ultimi anni la Cina avvia una offensiva diplomaticadestinata a migliorare i rapporti con i Paesi confinanti (con i quali esistono antiche dispute sui confini) e che sortisce i primi effetti positivi con Thailandia, Filippine e Pakistan e Vietnam.
Le autorità cinesi rivolgono ripetuti attacchi agli Stati Uniti, accusati di imperversare con la propria flotta nel Mar Cinese Meridionale e di utilizzare la minaccia della Corea del Nord quale pretesto per armare i Paesi vicini in funzione anti–cinese (il contenzioso maggiore riguarda il sistema missilistico THHAD, in via di insediamento nella Corea del Sud, e il cui raggio di azione comprende Cina e Russia).
La svolta nella politica estera cinese arriva il 7 settembre 2013, quando il Presidente Xi, in Kazakistan, annuncia il progetto di costruzione di una cintura economica sulla Via della Seta (sia terrestre che marittima), poi ampliata a tutta l’Asia, l’Africa e l’Europa. La “One Belt and One Road Initiative”, poi rinominata “Belt & Road Initiative” – BRI ha l’obiettivo di promuovere consultazioni politiche; interconnettività attraverso le infrastrutture; libero commercio; integrazione finanziaria e comunicazione tra i popoli. Il programma – nelle intenzioni – dovrebbe combattere gli effetti negativi della globalizzazione e ad espandere la catena del valore globale (oggi in gran parte prerogativa di Europa Occidentale, aree costiere del Nord America e Asia dell’Est).
Il mese successivo, per dare consistenza al progetto, il leader cinese annuncia, durante la visita in Indonesia, lacostituzione della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), istituzione multipolare, con il compito di finanziare i progetti infrastrutturali sulla Via della Seta. L’AIIB, operativa dal 16 gennaio 2016, ottiene l’adesione di 61 Stati – l’Italia tra questi.
In poco tempo la BRI diventa la piattaforma sotto il cui ombrello vengono promossi grandi progetti infrastrutturali, molti dei quali in Africa.
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Come è noto, la Cina ha acquisito influenza in numerosi Stati africani, al punto che in molti parlano dineocolonialismo. Pechino necessita di materie prime e derrate agricole e per raggiungere i propri obiettivi si inserisce nel vuoto lasciato da Europa e USA, offrendo investimenti nell’economia e nelle infrastrutture. Tra le opere realizzate da imprese cinesi ci limitiamo a citare la linea ferroviaria elettrica Addis Abeba – Gibuti, inaugurata quest’anno (nello Stato del Corno d’Africa la Cina ha costruito una base militare, che segue quelle di Francia, USA, Giappone e Italia).
Ma un altro elemento di soft power deve essere tenuto in considerazione: nelle relazioni bilaterali la Cina tratta gli Stati alla pari, riconoscendo agli interlocutori – che, a ragione o a torto, si sentono traditi dall’arroganza dell’Occidente – una soggettività e una dignità politica.
La Cina ha avviato anche importanti politiche di cooperazione anche con l’America Latina. L’ultimo grande investimento è stato effettuato nel Canale di Panama.
Un altro formidabile strumento per le politiche cinesi è costituito dal rafforzamento della cooperazione tra i Paesi emergenti BRICS (con l’Egitto potenziale nuovo candidato – secondo il Global Times, il quotidiano in inglese del PCC), che costituiscono partner politici, tecnologici e commerciali sempre più rilevanti. Tra questi il posto di riguardo è occupato dalla Russia, partner strategico industriale, militare e politico – soprattutto nel difficile dialogo con gli Stati Uniti.
Nella sua attività internazionale Xi Jinping trova un alleato insperato in Donald Trump, che ha fatto del motto “America First” il simbolo della sua presidenza. Il capo del PCC nel gennaio di quest’anno, al 47° Forum economico di Davos, si presenta come il paladino della globalizzazione e dell’antiprotezionismo, con l’obiettivo di convincere la comunità internazionale a concedere lo status di economia di mercato, a cui si oppongono numerosi Stati – l’Italia tra questi.
La Cina è diventata una potenza globale, in grado di competere con l’Occidente nelle produzioni ad alto livello tecnologico. Pochi esempi: il programma e la stazione spaziale; il sistema geostazionario satellitare BeiDou; l’aereo aereo civile C919; i treni ad alta velocità della classe la classe “Fuxin”; i sottomarini Shenhai Yongshi e Jiaolong; i nuovi materiali. Pechino, che ha compiuto numerose acquisizioni industriali all’estero, ha interesse a commerciare in mercati privi di barriere protezionistiche.
Il G20 di Amburgo del luglio 2017 offre alla Cina una nuova opportunità: 19 Paesi presenti hanno dovuto prendere atto “della decisione degli Stati Uniti d’America di ritirarsi dall’accordo di Parigi”, giudicato dai partecipanti “irreversibile” e Pechino ha buon gioco a presentarsi come sostenitore della lotta al cambiamento climatico.
Le complesse relazioni Stati Uniti – Cina rappresentano un elemento chiave nella governance del pianeta. Molti commentatori evocano la presenza, nei fatti, di un G2. La realtà è più articolata e introduce il tema dei rapporti con l’Europa. La Cina è consapevole che fratture e divisioni politiche, nonché la ritrosia di importanti Paesi membri a cedere a Bruxelles parti di sovranità nazionale, impediscono all’Europa di esercitare un ruolo determinante nella geopolitica mondiale.
A partire dal nuovo millennio l’interlocutore strategico della Cina è diventata la Germania. I vertici istituzionali dei due Paesi ogni anno si scambiano visite istituzionali. Le due economie sono diventate complementari. Nel 2016 la Germania è diventato il maggior partner commerciale della Cina (170 miliardi di euro), ed è l’unico grande Stato ad avere un interscambio in attivo(mentre tutta l’Europa nel 2016 registrava un pesante passivo di 174,385 miliardi euro). Viene da chiedersi se dietro i giudizi critici di Donald Trump nei confronti della Germania non vi sia – in aggiunta al problema dell’eccesivo surplus commerciale tedesco, 252 miliardi di euro – anche una irritazione nei confronti dell’asse preferenziale costruito con Pechino.
Una ultima osservazione.
Condizioni imprescindibili per studiare e comprendere la Cina – pur nella consapevolezza dell’impossibilità di farlo compiutamente – sono la rinuncia a leggere il Paese con i nostri modelli interpretativi e la disponibilità ad immedesimarsi nella storia e nella cultura locale. Questo è, a nostro avviso, il metodo migliore per acquisire le conoscenze utili non solo ad elaborare analisi critiche, ma anche per prepararsi al duro negoziato con la Cina nelle diverse sedi – sia quelle governative e istituzionali che quelle in cui sono impegnati coloro i quali hanno avviato relazioni economiche, commerciali, scientifiche e culturali di carattere bilaterale.
Tratto da articoli dal : business insider
Appendice

La globalizzazione avanza, e la Cina non resta indietro. Anzi, il paese si sta creando sempre più spazi di azione all’interno del mercato globale, cercando di modificarne gli assetti, e mirando al trono di prima potenza industriale mondiale per il 2049, anno del centesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La crescita della produttività passerà attraverso due progetti ambiziosi: se da un lato One Belt One Road sarà “un modo per esportare la capacità produttiva cinese nei Paesi attraversati dalla nuova Via della Seta” – e non solo un mero progetto legato alle infrastrutture per agevolare i commerci -, dall’altro l’industria cinese sarà attraversata da un rinnovamento radicale e repentino in un’ottica 4.0, sotto la guida del piano Made in China 2025. Questo progetto, lanciato nel maggio del 2015, punta a trasformare la “fabbrica del mondo” cinese, un’industria contraddistinta per produzioni a basso costo e a basso valore aggiunto, in una fucina di innovazione, di produzioni automatizzate ad alto valore aggiunto e di tecnologie produttive avanzate.
La Cina in poche parole vuole cambiare faccia, rinnegando lo smog e lo sfruttamento, e proiettandosi in una nuova era industriale tout court.
Un rapporto della Camera di Commercio Europea in Cina ha analizzato il nuovo, ambiziosissimo progetto cinese, indicando che lo sviluppo molto modesto del settore R&D - 2% degli investimenti a livello nazionale – ha intrappolato l’abnorme macchina industriale cinese in un circolo vizioso. In futuro lo sviluppo economico dovrà fondarsi sull’innovazione se la Cina non vuole ritrovarsi con un’economia stagnante prima che la popolazione abbia raggiunto livelli di reddito medio pro capite sufficientemente elevati. Da qui la necessità di investire in un’industria innovativa che assicuri un futuro prospero e stabile. Nel frattempo il Paese deve cercare di “diventare ricco prima di ritrovarsi vecchio”. Il tempo corre veloce alle spalle del dragone: l’invecchiamento della popolazione e la diminuzione della forza lavoro disponibile – 3,7 milioni di unità in meno tra il 2013 e il 2014, con un ulteriore decrescita di 4.9 milioni tra il 2014 e il 2015 - minacciano la sostenibilità di un sistema pensionistico adeguato. Inoltre la Cina attualmente si trova a fare i conti con paesi emergenti che fondano la loro forza sulla manodopera a basso costo, mentre allo stesso tempo economie avanzate come USA, Germania e Giappone stanno già sviluppando politiche di sostegno allo sviluppo delle proprie industrie manifatturiere.
In questo contesto, l’automazione è un metro di comparazione importante. L’industria cinese non è molto sofisticata: per esempio le aziende cinesi non sono molto automatizzate e contano 49 robot ogni 10.000 lavoratori, mentre risulta lampante il divario con la concorrenza internazionale, dove la Corea è a quota 531, la Germania a 301, la Svezia a 212, e la Danimarca a 188 - l’Italia, situata tra Belgio e Spagna in graduatoria, si attesta attorno ai 160 robot. Così, i paesi occidentali sembrano inclini a riportare le produzioni in Europa e USA, dove le percentuali di automazione produttiva sono molto elevate.
È chiaro che il governo cinese ha sviluppato CM2025 per affrontare le sfide internazionali e intestine che l’industria manifatturiera sta incontrando. Ma a differenza di analoghi progetti di avanzamento tecnologico, il piano cinese riguarda la completa ristrutturazione dell’industria, con l’ammodernamento tecnologico che diviene soltanto uno dei tanti fattori coinvolti per renderla più competitiva. Come ha confermato lo stesso presidente Xi Jinping: “La capacità di innovazione indigena cinese, e in modo particolare quella originale, è ancora debole”. Ovvero, la dipendenza dalle tecnologie straniere in settori industriali chiave non permette ancora al Paese di trovare una sua via indipendente e “indigena”. L’obiettivo sarà quindi quello di rendere le aziende cinesi più competitive sui mercati globali, puntando sui settori tecnologicamente più avanzati.
Sono dieci i settori chiave che riceveranno un’attenzione speciale all’interno del programma: nuova information technology; macchine CNC e robotica; attrezzature aerospaziali; strumenti per ingegneria oceanica e imbarcazioni hi tech; materiale ferroviario; veicoli a risparmio energetico e a energia nuova; electrical equipment; nuovi materiali; medicina biologica e apparecchiature mediche; macchinari agricoli. Alcuni degli obiettivi principali a cui mira il progetto riguardano, per esempio, i componenti e i materiali di base, che dovranno essere prodotti in autonomia dalla Cina per il 40% nel 2020, e per il 70% nel 2025; o la riduzione del 30% dei costi di produzione per il 2020, che sale al 50% per il 2025. Da sottolineare anche l’obiettivo, buono a sapersi, della diminuzione delle emissioni di anidride carbonica del -22% nel 2020, fino a un -40% nel 2025.
Come sottolinea il Times in un articolo di qualche giorno fa, già prima della rivoluzione comunista la Cina era ossessionata dall’assorbire la tecnologia estera per porre fine a un secolo di umiliazione e restaurare la propria potenza nazionale. Ma non si può negare che CM2025 sia il progetto più ambizioso mai proposto dal governo cinese: un piano, di fatto, che si basa su una politica di industria nazionale che mira a formare un nuovo tipo di potere globale e influenza. “Se CM2025 raggiungesse i suoi obiettivi – ha commentato Jeremie Waterman, presidente del China Center alla Camera di Commercio degli USA – gli Stati Uniti e gli altri paesi probabilmente diventerebbero soltanto esportatori di materie prime verso la Cina– vendendo olio, gas, carne bovina e soia”. L’occidente riuscirà a tenere il passo del dragone in un mondo sempre meno eurocentrico e che ha ormai nel Pacifico il suo baricentro economico?
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